L’India è un’esperienza di vita, è un’esperienza che attiva tutti e cinque i sensi, dall’olfatto alla vista. È una terra di paradossi, di contrasti, che pulsa e che travolge che, o si ama al primo viaggio o si rifugge immediatamente ma che comunque è destinata a restare impressa nella storia personale di chiunque decida di visitarla.
È un paese che vanta una storia antica oltre 5000 anni, che ha subito l’influenza della cultura ariana stanziatesi nella zona settentrionale del paese nel 1500 a.C., dalla quale la principale eredità culturale è stato il sistema delle caste, un sistema discriminatorio che per quanto sia proibito dalla legge, continua ad esercitare un peso notevole sulla cultura, la storia e la società.
Popolazione
L’India è un ‘melting pot’, un paese che nel corso della sua storia ha saputo accettare e assimilare gli stranieri, le culture che provenivano da fuori, e alle volte, plasmarle su di essa. A causa di ciò non si può dire che in India via sia uno stereotipo razziale o una cultura monolitica atta a definirla. La popolazione che vive al sud ha generalmente tratti somatici più morbidi e una carnagione più scura rispetto alla popolazione del nord che con tutte le eccezioni del caso, ha di norma una carnagione più chiara e tratti più ‘spigolosi’. Mentre quella che vive o proviene dalla parte orientale del paese, ha tratti per lo più mongoli. Oltre 70 milioni di Indiani, appartengono a numerose tribù, dai gruppi protoaustraloidi dell’Orissa, ai popoli Mon-Khmer del nord-est.
Questa differenza della popolazione ha avuto un riflesso nella storia, nella cultura e sopratutto nella lingua. In India si parlano numerosi idiomi. Tecnicamente vi sono 17 idiomi principali più una serie infinita di dialetti regionali, e qualcuno è arrivato a contarne più di 2000. Secondo la costituzione indiana comunque, sono l’hindi e l’inglese le lingue ufficiali. L’hindi è l’idioma più diffuso, ma molti stati a minoranza hindi preferiscono usare la propria lingua, come nel Tamil Nadu, dove viene parlata la lingua tamil considerata una delle lingue più antiche della cultura e storia indiana. Il bengali è anche una lingua propria e non un dialetto, e vanta oltremodo una ricca letteratura.
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Un approccio al pensiero indiano
Dal diario di Peter Brook, enfant terrible del teatro inglese.
Regista teatrale britannico, autore del Mahābhārata, l'opera più imponente (considerata anche come una summa del lavoro di Brook), che durerà nove ore. Egli è un discepolo dell'insegnamento di Georges Ivanovič Gurdjieff, che gli viene impartito principalmente da Jeanne de Salzmann. Tracce dell'insegnamento di Gurdjeff sono presenti in tutta la sua riflessione teorica sul teatro.
"Tutto era iniziato quando il giovane indiano, durante le prove del nostro spettacolo sul Vietnam, US, pronunciò per la prima volta la strana parola Mahabharata. L’immagine evocata divenne per me un pensiero assillante. Due eserciti, uno di fronte all’altro, impazienti di muoversi. Tra i due sta un principe che si chiede: "Perché combattere?".
Tornavo continuamente su quell’immagine e un giorno raccontai a Jean-Claude Carriére della battaglia, delle domande del guerriero. Poiché era interessato a saperne di più, andammo a trovare Philippe Lavastine, un amico letterato che aveva dedicato tutta la vita agli studi sanscriti. Gli chiedemmo di spiegarci la posizione dei due eserciti, chi era il principe e perché metteva in dubbio il senso della guerra. Philippe iniziò rivelandoci il nome del principe: Arjuna. Poi disse che era importante capire perché il suo carro fosse guidato da Krishna, un dio. Ma per capire questo, continuò, dovevamo sapere tutto quanto riguardava i fratelli di Arjuna e i suoi cugini, il motivo per cui erano in conflitto e come erano nati. Era quindi necessario risalire molto indietro nel tempo, addirittura a prima del loro concepimento, alla creazione del mondo. Scese il buio e quando a tarda sera ce ne andammo il piccolo appartamento zeppo di libri e di carte sembrava splendere della luce della grande epopea che aveva appena cominciato a dispiegarsi davanti a noi. Tornammo da lui il giorno seguente e da lì cominciarono una serie di incontri stupefacenti ed esaltanti a mano a mano che la storia proseguiva, non in ordine logico ma come la ricordava Philippe, in tutta la sua intricata complessità di incroci. L’avevamo ricevuta come i bambini in India, oralmente, da un narratore. Uscimmo in silenzio sulla via Saint-André-des-Arts, scura e deserta. Ci fermammo. Sapevamo di aver preso la stessa decisione, dovevamo passarlo ad altri attraverso il nostro particolare campo di lavoro, il teatro".
Nota. Quando facevo la rivista Arti d’Oriente, venni a sapere che l’attore Vittorio Mezzogiorno, recitando nel Mahabharata di Brook e di Carrière la parte di Arjuna, aveva avuto una sorta di satori (è più giusto parlare di samadhi). Lo cercai, per farmelo raccontare, ma Vittorio era morto. Andai a trovare la vedova, Cecilia Sacchi, e ricordo che mi colse un terribile temporale, avevo guadato le strade con l’acqua alle caviglie, assorbendo il diluvio sul vestito. Avrei voluto rinunziare all’intervista, ma lei fu così cortese da trascurare l’acqua che le riversavo sul divano e sui tappeti. Raccontò. Poi parlai con la figlia. Infine con Peter Brook. Così mi convinsi che il Mahabharata ha un potere eccezionale e plagia le persone al suo servizio.
"Per dieci anni Jean-Claude lesse, scrisse e lottò. Versioni della storia andavano e venivano una dopo l’altra. Con differenti gruppi di attori cominciammo laboratori mai portati a termine. Era come se il Mahabharata si fosse risvegliato improvvisamente da un letargo durato molti secoli. Doveva uscire e attraversare il mondo. Per nostra fortuna eravamo lì per aiutarlo nel cammino.
Adesso diventava sempre più necessario viaggiare e per diversi anni noi tornammo in India per preparare il Mahabharata. Noi: il pronome ricorre costantemente perché, nel corso degli anni, "noi" eravamo diventati una squadra che cambiava e si evolveva…
Quando iniziammo le prove del Mahabharata, tentammo di dividere le nostre impressioni dell’India con il gruppo allargato degli attori, ma ben presto ci rendemmo conto che era impresa impossibile. Allora raccogliemmo la nostra compagnia e volammo in India. Jean-Claude (Carrière), io e Marie-Hélène (Estienne) avevamo scelto un itinerario in cui, in dieci giorni di viaggi estenuanti, erano compresi tutti i luoghi più significativi da noi visitati nel corso degli anni. Questo sistema diede ottimi risultati: un eccesso di impressioni indigeste fa parte dell’esperienza indiana e ha la funzione di non far dimenticare che le conclusioni che si traggono non possono essere esaustive. Appena ci si illude che i contorni dell’India cominciano a farsi chiari, una nuova impressione improvvisa bussa alla porta della conclusione precedente.
Nel Mahabharata la metafora che ricorre più spesso è quella del fiume. Il campo di battaglia è un fiume, i corpi smembrati sono rocce, le dita amputate pesciolini, il torrente è sangue. L’india è questo fiume. Appena arrivati costringemmo gli attori a entrare nel vasto vortice oscuro del tempio di Udipi, mangiammo il cibo servito su foglie di palma, accovacciati sul pavimento di pietra come le centinaia di migliaia di pellegrini che ogni anno sono nutriti in quel posto. Ben presto incontrammo vecchi bramini disposti a parlare del Mahabharata e dopo questa prima introduzione conducemmo il gruppo nel luogo sacro che, tra tutti quelli che conoscevamo, era il nostro preferito: un piccolo tempio chiamato Parasinikadavu, che sorge accanto a un fiume nella parte più lontana della regione del Kerala. Qui ha luogo il rituale più antico che si conosca, non in una stagione particolare ma due volte al giorno, e in nessun altro luogo il senso dell’antichità è più potente. All’interno di un piccolo cerchio ingombro di pietre, recintato da sbarre di ferro, sei suonatori quasi nudi percuotono lunghi tamburi, mentre alla luce flebile di una lampada a olio un ometto vispo, con il corpo ricoperto di una pasta gialla, le labbra allungate da due piastre decorate a forma di mezza luna, salta e danza puntando una freccia, con un piccolo arco d’argento, verso ogni punto cardinale. In questa minuscola cripta ci sentimmo in contatto diretto con il mondo vedico in cui avevano preso forma le intricate azioni del Mahabharata. La dicotomia tra passato e presente si era dissolta.
Viaggiamo con gli attori compiendo un cerchio. In giù attraversando il Kerala e il Tamil Nadu; in su fino a Madras e poi a Calcutta, in treno fino a Benares, quindi a Delhi. Ognuno di noi fece una scorta di immagini vitali e il gruppo accumulò un’enorme bobina di impressione da elaborare al ritorno, durante le prove. Al tempo stesso l’India di oggi ci manteneva saldamente ancorati alla realtà di un paese brulicante e zoppicante, che si dimena e combatte nella sua maniera, immobile nel mendicare, o raggomitolato nel sonno su un marciapiede. Una tale vista spazza via dal cervello qualsiasi traccia di romanticismo, qualsiasi residuo di un Oriente velato di mistero. L’India era il treno di notte, il soffocante cilindro di metallo rovente con cuccette di metallo arrugginito e sbarre ai finestrini attraverso cui, a ogni stazione, mani scarne cercavano a tentoni qualche orologio lasciato distrattamente sotto il cuscino. L’India era gli dei la cui divinità è contornata da lampadine elettriche. Era la realtà della fame, la realtà della violenza, la realtà dell’irresistibile cascata della vita, che avvolge sia la forma che il tempo.
Storditi e saziati dalle impressioni che stavamo ricevendo, più o meno a metà viaggio, a Madurai, sentii che avremmo dovuto fermarci. Al mattino facendo colazione ne discutemmo tutti insieme e convenimmo che era necessario cominciare a provare. Il nostro viaggio aveva uno scopo preciso e le pressanti necessità dello spettacolo imminente ci dicevano che le nostre esperienze dovevano essere collegate con il lavoro. Lasciammo la città e camminammo fino a una foresta poco distante, arrivati in una radura come esercizio iniziale ci demmo il compito di scegliere una qualsiasi cosa trovassimo tra le piante e di farne poi una catasta al limitare della radura stessa. Avevamo appena terminato, quando come dal nulla apparve una vecchia signora che in silenzio si prostrò davanti alla nostra rudimentale pira. Poco dopo si rialzò, indietreggiò e scomparve, lasciandoci lo stupore di capire che avevamo aggiunto un nuovo santuario all’India.
Proposi quindi un altro esercizio: "Molto rapidamente, procedendo in cerchio, ognuno dica una parola, una soltanto, che esprima la sua impressione sull’India". Non vi fu alcuna esitazione: in rapida successione ritmica, una battuta dopo l’altra, aggettivi o nomi si susseguirono come sfacettature di un cristallo rotante: "frenesia", "colore", "tranquillità", "antichità", "volgarità", "fame", "fede", "splendore", "miseria", "matriarcato". Trenta persone, trenta parole diverse che parvero così inadeguate da spingerci a rifare subito un altro giro, altre trenta parole. Dopo di che dovemmo smettere, riconoscendo che la lista non sarebbe mai stata completa. Quello, allora, mi parve un momento interessante per provare una delle scene che avevamo elaborato al Bouffes du Nord e vedere quale apporto avrebbe potuto dare l’influenza del viaggio. Avevamo appena iniziato, quando ci accorgemmo che la foresta pullulava di presenze umane nascoste. Attorno a noi si era formato un pubblico che ci osservava attraverso il fogliame. "Che cosa mai capiranno?" mi domandavo mentre si dipanava il testo francese di Jean-Claude. Ma quando un attore balzò fuori dai cespugli quei nostri primissimi spettatori lo riconobbero subito e gridarono "Shiva!". Eravamo sopraffatti dallo stupore; i nostri suoni e i nostri gesti in India avevano un senso. Questa esperienza, più di qualsiasi altra, ci diede il coraggio di portare avanti un lavoro che fino a quel momento non avevamo mai messo alla prova.
Vicino a Madras c’è un luogo santo, Kanchipuram, un centro sacro, una città di templi. E’ uno dei quattro grandi santuari che formano un quadrato nel subcontinente, dedicati alla tradizione di Shankaracharya, santo e maestro del IV secolo…"
Forse Brook è stato frettoloso nella raccolta delle informazioni, oppure lo scrivente è presuntuoso a pretendere di riprenderlo. Shankaracharya, che significa ‘il Maestro Sankara’ è uno dei superiori dei monasteri (matha) fondati da Sankara. Quest’ultimo, il cui nome significa ‘benefacente’, ‘che porta benessere’, epiteto di Shiva, storicamente è un filosofo del Kerala, nato nell’VIII secolo, discepolo di Govindanatha, vissuto a Varanasi, dove predicò il vedanta della dottrina advaita; fondò 4 monasteri a Puri, Sngeri, Dvaraka e Badarinatha, i cui superiori sono pontefici dell’ordine dasana-midandin della dottrina advaita.
"Qui, nel trafficato gruppo di costruzioni a lui dedicate, vi sono tre Shankaracharya. Vi è un vecchio maestro che si è ritirato dal mondo; non parla più, ma lo si può vedere da un cortile una o due volte al giorno, in silenzio, attraverso una finestrella non più grande di un viso, che viene aperta e rinchiusa momentaneamente. Vi è anche un’altra occasione in cui le persone che desiderano trovarsi nella sua aura carismatica si radunano su una terrazza, prendono posto davanti a un sipario e attendono pazientemente come a teatro. Talvolta il sipario non viene proprio aperto. Ma se si ha fortuna, si aprirà senza preavviso. Allora, a un livello appena più basso della terrazza, in uno stretto spazio cubico si potrà vedere disteso su un pavimento un mucchietto immobile che nessuna parola potrebbe meglio descrivere di un’espressione della Bhagavad-Gita: "Il tempo invecchiato".
Se si riesce a persuadere l’antica figura ad alzarsi, la folla si farà avanti e alcuni potranno anche essere autorizzati a scendere alcuni scalini fino a una ringhiera di ferro. Gli occhi del vecchio a questo punto scruteranno i volti protesi e chi incontrerà questo sguardo, anche per un solo istante, riceverà fisicamente il momento di contatto, come uno shock.
Vi è un secondo Shankaracharya, un uomo maturo che ha tutta l’energia necessaria per espletare le mansioni pratiche di un capo ed è responsabile della conduzione del tempio. Un giorno il vecchio morirà e allora il secondo Shankaracharya prenderà il suo posto dietro alla finestrella; il terzo Shankaracharya, al momento ancora un ragazzo che viene rigorosamente preparato con particolari compiti quotidiani, passerà nella seconda posizione e un nuovo giovane sarà scelto per entrare nella successione.
Lo Shankacharya in attività ci accolse con calore: un uomo dal viso molto mobile, sempre pronto a passare dal riso alla serietà, con gli occhi scuri e attenti, la fronte segnata da strisce di terra impastata, il torso nudo se non per il rituale filo diagonale portato dal bramino, un bastone nella mano. In una mia precedente visita gli avevo rivolto una domanda riguardo a Krishna. E’ un dio incarnato, sceso sulla terra per farsi uomo a rilevare le sofferenze dell’umanità; ma contrariamente a Cristo, ne prese anche le attività e i piaceri; nelle storie antiche era un guerriero terribile e astuto e un amante irresistibile".
"…In tal modo riflette la generosa capacità indù di abbracciare ogni aspetto dell’esistenza della vita senza alcun giudizio morale. Tutto questo lo rende perfetto, o imperfetto? L’imperfezione è oltre la perfezione? "Se Krishna ha tutti gli aspetti di un uomo – gli avevo domandato – ha dunque anche la naturale capacità umana di essere nel torto, di commettere errori?" Avevo davvero bisogno di sentire la sua risposta, sperando forse di trovare il condono delle mie debolezze o almeno una migliore comprensione del Mahabharata. Shankaracharya sorrise e rispose: "Tu poni la domanda da un punto di vista umano. La mente dell’uomo è costretta a fare queste distinzioni. Dal punto di vista di Krishna la domanda non si pone". Come un indovinello zen queste parole scossero la mia capacità di comprensione e mi dimostrarono quanto può essere rilevato più attraverso il turbamento che per gli ingannevoli percorsi della ragione.
Questa volta Shankaracharya accolse come vecchi amici quelli di noi che erano già stati a trovarlo. Ci sedemmo per terra e io spiegai che avevamo portato con noi il gruppo di attori che lavorava sul dramma. Li indicò uno alla volta e ridendo identificò i diversi personaggi. Altrove l’India era spesso razzista e ci sentivamo continuamente rivolgere domande ripugnanti, come: "Perché un nero?", "Perché deve essere un nero?" Qui invece non esistevano barriere; fu per noi una gioia e un sollievo quando riconobbe immediatamente un eroe o una divinità indù – Bhishma, Drona, Shiva o Krishna – nei volti dell’africano, del giapponese, del balinese o del francese che a lui guardavano con fiducia. Benedisse la nostra impresa, ci consigliò di non mangiare carne il giorno della prima e ci chiese se fosse possibile fargli pervenire una videocassetta quando lo spettacolo fosse stato pronto.
Una volta tanto questa fu la promessa di un viaggiatore che non sarebbe stata dimenticata e quando cinque anni dopo girammo il film dello spettacolo gli spedimmo una copia. Trascorso del tempo alcuni di noi tornarono in India. Quando entrammo a Kanchipuram una folla di giovani elettrizzati riconobbe gli attori e ci attorniò. "Abbiamo visto il film!" "Dove?" "Nel tempio" "Un bel film!". Andammo a fare visita a Shankaracharya. Attivo, pieno di spirito e pratico come sempre, ci disse che approvava la nostra versione. Per noi era il critico supremo, stimato e temuto al tempo stesso.
Quanto più ci addentravamo nel Mahabharata, tanto più arrivavamo a riconoscere la ricchezza e la generosità del pensiero tradizionale indù. Una singola parola intraducibile, dharma, è sufficiente a collegare l’universale con ciò che è prettamente personale. Il Cosmo ha il suo Dharma e ogni individuo ha il suo dharma; il nostro dovere è scoprirlo, riconoscerlo, e imporci come scopo costante la sua realizzazione. Il termine è spesso tradotto in modo vago con ‘dovere’; in effetti implica vivere in accordo con un imperativo che va oltre tutte le consuete leggi morali. Il dharma rispetta i limiti innati di ogni persona, ognuno ha il proprio punto di partenza e nel corso di una vita ogni uomo o donna può arrivare soltanto fino a un certo livello. Ognuno ha il suo destino, ma pochi di noi gli consentono di manifestarsi. Il dharma non può essere ridotto ad alcun codice, ma nel ricercatore perplesso può essere risvegliato dall’intera azione mitica del Mahabharata, che indica come il dharma individuale sia collegato con il grande Dharma, con il costante riequilibrio della bilancia dell’esistnza. Krishna, nel Mahabharata, mostra che per preservare l’equilibrio dell'universo, ogni cosa deve avere il proprio posto. La sessualità, la duplicità, la violenza: tutto ha un senso. Pertanto le sue azioni sorprendenti e apparentemente immorali costituiscono un confronto costante con un modo di pensar rigido e possono anche scandalizzare i sinceri credenti indù. A un incontro mondano a Delhi, una distinta signora scoppiò in lacrime. "Non riesco a sopportare il Krishna del Mahabharata" mi disse "si comporta così male!"
Tali fraintendimenti fanno parte della natura onnicomprensiva del Mahabharata e durante le prove eravamo continuamente provocati dalle contraddizioni insite in questo lavoro. Spesso l’abbiamo definito shakesperiano perché ogni idea preconcetta va in frantumi di fronte alla vera umanità dei personaggi che, dunque, sfuggono ai moralismi facili e ai giudizi superficiali.
Il viaggio in India con gli attori fu forse la parte più importante del nostro processo di preparazione, non tanto come sistema per mettere ciascuno nello ‘spirito giusto’, ma piuttosto come mezzo per eliminare gli stereotipi sull’Oriente e sui miti in generale. Ogni momento portava una nuova sorpresa, una nuova contraddizione e, sebbene viaggiassimo leggeri, ritornammo a Parigi con un eccesso di bagaglio intellettuale ed emotivo.
Ora, sul piano pratico, si trattava di trovare le forme teatrali adatte a veicolare questo carico. Mai nel nostro lavoro ci era parso tanto chiaro che le forme dovevano arrivare per ultime, che il vero carattere della rappresentazione sarebbe emerso soltanto quando un’accozzaglia di stili fosse passata attraverso un filtro che elimina il superfluo. Il nostro unico principio era innanzi tutto scoprire il significato per noi stessi, quindi trovare l’azione che lo rendesse significativo per gli altri. Cosicché in questo processo non si poteva scartare niente e tutte le possibilità andavano esplorate. Imitammo antiche tecniche, ben sapendo che non saremmo mai stati capaci di eseguirle nel modo giusto. Lottammo, cantammo, improvvisammo, raccontammo storie o introducemmo frammenti delle tradizioni tanto diverse dei componenti del nostro gruppo. Attraverso il caos e la confusione il cammino dirigeva verso l’ordine e la coerenza. Ma il tempo lavorò a nostro favore. Improvvisamente arrivò il giorno in cui l’intero gruppo si accorse che stavamo raccontando la stessa storia. Lavorando insieme, le differenti razze e religioni erano diventate un unico specchio per una molteplicità di temi".
"Questo libro racconta la storia della tua razza, la razza umana" dice l’autore, Vyasa, al ragazzo che rappresenta il lettore.
"Un secolo fa la visione della storia proposta dall’antico induismo era del tutto inaccettabile al mondo occidentale; ma nel mondo di oggi le sue immagini e i suoi simboli trovano sempre più conferme. Gli indù credono che negli infiniti cicli di creazione e distruzione gli esseri umani abbiano rapidamente raggiunto l’Età dell’Oro, il primo e il più alto Yuga da cui discendono tutti i successivi. Il più basso, il quarto e ultimo periodo, è quello in cui viviamo oggi: il Kali Yuga, l’Età Oscura. Non si tratta di pessimismo; la realtà non può essere né ottimista né pessimista, è quella che è, per questa precisa ragione questo mito è così pertinente. Tutta la tensione e il tormento, la violenta sofferenza e la disperazione della vita contemporanea si riflettono nei complessi avvenimenti del grande poema epico. Il nostro mondo sta scivolando sempre più giù nel profondo degli amari orrori che il Mahabharata ha predetto: l’Età Oscura è tutta intorno a noi e con essa sembra che abbiamo raggiunto la degradazione estrema come creature umane, ben oltre quanto gli antichi autori potessero prevedere.
Oggigiorno vi sono molti film sorprendenti, commedie e romanzi sugli orrori della guerra; ma a differenza di questi, il Mahabharata non è negativo. Ci fa cogliere il significato primo del conflitto. Mostra che i movimenti della storia sono ineluttabili, che le gradi sofferenze e i disastri possono essere inevitabili, ma che in ogni fuggevole momento si può aprire una nuova possibilità e la vita può ancora essere vissuta nella sua pienezza.
Questo può aiutarci a capire come vivere, come attraversare l’età più oscura. Di per sé era una ragione sufficiente per portare il lavoro sulla scena. E’ il motivo per cui, in francese, poi in inglese, in giro per il mondo, e poi su video e su pellicola, sembra che abbia toccato una corda comune a tutta l’umanità. Come sopravvivere è una domanda pertinente del nostro tempo, ma cela una domanda ancora più urgente, che il Mahabharata mette saldamente al posto giusto: non soltanto come, ma anche perché sopravvivere".
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