Il delta del Gange.

Questa regione, di grande varietà culturale e geografica, si incunea, partendo dalle cime himalayane della regione del Sikkim, tra Nepal, Bihar e il Bangladesh, per allargarsi poi nella pianura e nel delta gangetico dove troneggia Calcutta, Kolkata, che ne é capitale e che fu, fino al 1917, gloriosa capitale della amministrazione britannica.

Originariamete lo stato comprendeva  l'intero delta del Gange; la zona venne divisa per questioni religiose, dopo l'indipendenza indiana, nel 1947 e col nome di Pakistan Orientale, si indicò l'area dell' odierno Bangladesh , e con quello di Pakistan Occidentale l'area del Sindh e parte del Punjab. Si creò così un nuovo stato indipendente, seppur costituito da due regioni separate geograficamente, a maggioranza musulmana. Il Pakistan Orientale, a sua volta, si separò poi dall' attuale Pakistan,  questa volta per questioni linguistiche, politiche ed economiche, assumendo il nome definitivo di Bangladesh dopo una sanguinosa guerra civile che diede origine alla terza guerra indo-pakistana nel 1971. Questa serie di suddivisioni,  provocò enormi ondate di profughi, che portarono lo stato ad una condizione cronica di inadeguatezza delle infrastrutture e delle risorse.

Calcutta fondata nel 1690 come semplice stazione commerciale della britannica Compagnia delle Indie Orientali, grazie alla sua posizione geografica, in seguito si sviluppò enormemente. E continua a farlo, disordinatamente, lungo le sponde del fiume Hooghly. Attraversare questa diramazione del Gange sul celebre ponte di Howrah, dà una tangibile idea della densità umana di questo paese.
Ma Calcutta è anche il principale centro culturale ed intellettuale dell'India. Qui germogliò il seme del nazionalismo indiano e qui Gandhi iniziò il movimento di non- cooperazione. Qui svilupparono la loro opera premi Nobel, Tagore, Amartya Sen, Madre Teresa, e grandi  della filosofia religiosa, Sri Aurobindo, Vivekananda, Ramakrishna, che tanto contribuirono alla conoscenza e alla divulgazione mondiale del pensiero Indù. Ma a Calcutta vi imbatterete anche nei sacrifici di animali offerti alla dea Kali, nelle strade che costeggiano il suo tempio principale, dove la setta dei Thug  veniva a pregare prima di dare la caccia alle proprie vittime umane. Potrete visitare le magioni e i palazzi dell'epoca coloniale e perdervi nei numerosissimi mercati a caccia di artigianato.

Nel paese sono presenti buoni esempi di architettura di epoca Moghul e città care al pellegrinaggio ed alla storia indù, come Tribeni o Nawadwip, capolavori  unici come i templi in terracotta di Bishnupur, ma forse la maniera migliore di visitare ed avere una idea di questo paese è navigare. Scendere il fiume partendo da Mushidabad verso Calcutta, o visitare partendo da Basanti,  la parte indiana del Sunderbans, la foresta paludosa di mangrovie che occupa la costa. E' fondamentale, per quest'ultima escursione, rivogersi all' Ente del turismo bengalese, perchè entrerete nel regno della  tigre del Bengala, la mangiatrice di uomini, che non teme l'uomo e nuota benissimo, dei coccodrilli giganteschi e di una natura molto ostile.

Se invece siete più portati alla meditazione che all' avventura, risalite il paese e concedetevi una vacanza a Darjeeling, ove potrete, nebbie permettendo, godere della vista dei giganti himalayani, bere  lo squisito thè in una atmosfera coloniale, di forte influenza buddhista e di totale riposo.

Oppure scendete al confine con l'Orissa e troverete bellissime spiagge incontaminate e ricche di vegetazione come Digha , Shankarpur o Junput, piccoli villaggi di pescatori  con anche qualche antico tempio da visitare, per non perdere il ritmo.

Storia

I resti di antiche civiltà nella regione del Bengala risalgono ad almeno quattro mila anni fa,quando la regione era abitata da popolazioni dravidiche, tibeto-Burmano, e austro-asiatiche. L'esatta origine della parola Bangla o Bengala è sconosciuto, anche se si ritiene che possa derivare da Bang, la tribù di lingua dravidica che si stabilì in questo territorio intorno all'anno 1000 a.C.
 
Il Regno di Magadha nel V secolo a.C.
Dopo l'arrivo degli indo-ariani, si andò formando il regno di Gangaridai intorno al settimo secolo a.C., che poi venne unificato con il Bihar sotto il dominio del Magadha prima e dell’Impero Maurya poi. Il Bengala è stato in seguito parte del vasto Impero Gupta dal terzo al sesto secolo d.C. Dopo il collasso dell’impero, Shashanka fondò un regno che ebbe però breve vita. Shashanka è considerato il primo re indipendente nella storia del Bangladesh. Dopo un periodo di anarchia, la dinastia Pala, buddista, dominò la regione per quattrocento anni, seguita da un breve regno della dinastia indù Sena. L'Islam venne introdotto nel Bengala nel XII secolo da missionari sufi e le successive conquiste musulmane contribuirono alla diffusione di questa religione in tutta la regione. Bakhtiar Khilji, un generale turco, sconfisse Lakshman Sen della dinastia Sena e conquistò gran parte del Bengala. La regione venne governata da dinastie di sultani e signori feudali nei successivi cento anni. Con il XVI secolo, l'Impero Moghul stese i suoi domini Bengala, e Dhaka divenne un importante centro provinciale dell’amministrazione dell’impero.
I commercianti europei arrivarono nel tardo XV secolo, e la loro influenza crebbe fino a quando la Compagnia Inglese delle Indie Orientali acquisì il controllo del Bengala in seguito alla battaglia di Plassey nel 1757.La sanguinosa ribellione del 1857 portò al trasferimento di autorità alla corona, con un viceré britannico. Nel corso della dominazione coloniale la carestia colpì il subcontinente indiano molte volte, compresa la Grande carestia del Bengala del 1943 che affamò più di 3 milioni di persone.
 
Mappa della provincia del Bengala, 1893.
Tra il 1905 e il 1911, vi fu un fallito tentativo di separare la provincia del Bengala in due zone, con Dhaka capitale della regione orientale.Quando l'India venne divisa nel 1947, il Bengala venne spezzato in due lungo un confine religioso, con la parte occidentale rimasta sotto il governo dell'India e la parte orientale congiunta al Pakistan come provincia chiamata Bengala orientale (poi ribattezzata Pakistan orientale), con una propria capitale a Dacca.

Kolkata

La capitale del West Bengala è stata ufficialmente ribattezzata nel 2001 Kolkata, secondo la corretta dizione bengalì.
La città si distende lungo il fiume Hoogli, una delle numerose ramificazioni del delta del Gange, che la separa dalla città gemella Howrah, oggi completamente integrata nella Grande Calcutta e  di cui fanno parte diverse municipalità. Nel 1772 divenne la capitale dell'India britannica, dopo che la Compagnia delle Indie Orientali vi si era stabilita nel 1690. Kolkata vide gli albori dei movimenti indipendentisti indiani e, seppur spodestata dalla nuova capitale New Delhi, rimase al centro delle attività industriali e culturali del paese, fino a quando la pressione della migrazione proveniente dal Bangladesh separato con la partizione del 1947 e le tensioni politiche, fecero collassare le infrastrutture della città. Ondate di attacchi terroristici a opera dei dei marxisti naxaliti ( dal villaggio Naxalbari, dove si formò originariamente il movimento) paralizzarono la città negli anni 70 del '900.

Simbolo della città erano i risciò pullers, gli uomini cavallo: dal 1997 il servizio è stato ufficialmente soppresso e ne restano solo 6.000 provvisoriamente autorizzati, ma altri 25.000 hanno perso il loro unico mezzo di sostentamento, così come le miriadi di venditori ambulanti che sono stati allontanati per ripulire l'immagine della città.

Nei primi anni '90 l'economia della città ricominciò ad essere vitale, portandola ad una recente rinascita. Dal 1977 fino ai giorni nostri, lo stato del Bengala è stato amministrato da una coalizione di partiti comunisti di vari indirizzi ideologici che hanno comunque dovuto accettare la liberalizzazione economica in atto nel paese. Oggi la Grande Kolkata è in rapida evoluzione, con importanti investimenti privati e stranieri, e l'aspetto della città sta velocemente cambiando; i celeberrimi slums, le baraccopoli immortalate nel  romanzo di Dominique Lapierre La città della gioia, sono state distrutte, e grandi centri commerciali e di intrattenimento hanno preso il loro posto.
Lussuosi edifici delle grandi compagnie indiane e delle multinazionali principali svettano in tutti i quartieri. Grandi complessi commerciali monotematici stanno sorgendo un po' ovunque. Ufficialmente i senzatetto ormai sono pochissimi, ma all' imbrunire centinaia di migliaia di persone, le stime aprossimative ne indicano 600.000, si ammucchiano sotto i loro stracci per pasare la notte in qualche angolo di strada. L'analfabetismo infantile raggiunge il 65 % e l' affollamento e le miserie delle città indiane sono più tangibili qui che altrove.

Ma la popolazione non è aggressiva e Kolkata non è una città più pericolosa di altre. L'Inglese è comunemente parlato molto più qui che a Delhi, e l'approccio con la cultura e le tradizioni è più raffinato, più profondo.

Il traffico e gli ingorghi, così come l'inquinamento di Kolkata sono memorabili, e la rete di tram, unica in India, non alleggerisce la siruazione. La vecchia Park Street, oggi Mother Teresa Sarani e poi Park Circus dividono in due il cuore della città, dove la parte nord è senz'altro la più caotica mentre quella meridionale gode di una migliore pianificazione. Ad est nella zona chiamata Salt Lake, si estendono enormi e nuovi quartieri, ben pianificati. I vecchi edifici residenziali coloniali appaiono un po' abbandonati  e l'umidità del clima colpisce gli scarsi interventi di conservazione.

Si può osservare la vita cittadina lungo il fiume con una escursione in barca, che parte dall'attracco dei traghetti, a Strand Road a sud del ponte di Howrah. Lungo le rive sorgono antiche costruzioni coloniali, pontili abbandonati e magazzini, e potrete vedere i dobi wallah, i lavandai, ed i fedeli che compiono le loro abluzioni, così come gli eserciti di portatori che scaricano le chiatte e quelli che pescano sabbia, i forni crematori elettrici, poichè le pire funerarie a legna sono bandite dalla città a causa della scarsità di materia prima, che generalmete sorgono vicino ai templi. Questi sono avvistabili per tempo grazie agli alberi e le palme in cui sono immersi, altrimenti scarsi.

Calcutta non offre monumenti memorabili, a parte naturalmente le espressioni dell'Impero britannico, ma la visione di una umanità molto variegata, e forse i luoghi migliori dove averne una visione complessiva sono i mercati e i templi. Il mercato dei fiori, sotto il ponte di Howrah  ( vietato fotografare il ponte! )è uno di questi. Armatevi di santa pazienza e calma olimpica perchè è un luogo particolare, la cui attività frenetica è continua, giorno e notte, tra folla,  tonnellate di fiori, e odori non sempre floreali. Nella zona, andando verso est, si tengono molti altri mercati rionali tematici, del cocco, delle banane..ma bisogna essere mattinieri per vedere l'attività al suo culmine.

Dopo le nove sono già quasi deserti ( relativamente parlando..sia chiaro !). Altro luogo emblematico è il tempio di Kalì; il racconto mitologico indica questo luogo come il punto in cui cadde l'alluce della dea, il cui corpo Vishnu aveva smembrato nel tentativo di fermare la danza cosmica che Shiva aveva iniziato alla vista della compagna morta. Accanto al tempio sorge Nirmal Hriday, il primo centro fondato da Madre Teresa. Se invece volete darvi al pazzo shopping e siete campioni del mercanteggio, non disertate il New Market, dietro al monumentale Hotel Oberoi Grand.

Il tempio non offre nulla di particolare in sè, ma poichè qui la mattina presto vengono esposti i cadaveri prima di venire cremati al vicino Kalì Ghat, potete immaginare l'atmosfera che vi regna.  Se siete passati prima al mercato dei fiori, e avete dimenticato di acquistare una ghirlanda di fiori di ibisco per la  dea Kalì, lo potrete fare direttamente qua tra le mille bancarelle che attorniano il tempio.E' il fiore preferito della Dea!
Da mille e una notte è invece il tempio Jain di Sital Nath, vicino alla fermata della metropolitana Girish Park.  Si tratta di una costruzione della seconda metà del 1800, nella quale sono state inseriti tutti i più lussuosi articoli dell'epoca in un insieme un po' kitch, ma di grande effetto.

Interessante ai fini della comprensione del luogo è anche il quartiere degli scultori, Kumartuli. Niente a che vedere con gli analoghi quartieri europei del primo 900! Si tratta di un dedalo di vicoli ove vivono da due secoli gli artigiani dediti alla produzione di idoli religiosi, anche enormi , come durante la festività di Durga Puja, ma si incaricano anche di commissioni private e governative. Per poche rupie e un paio di ore, potreste trionfalmente tornare a casa col vostro mezzobusto da esporre in giardino tra gli avi.

Se al termine della gita siete stremati e avete bisogno di rifocillarvi, potrete andare all' Indian Coffee House, nella zona universitaria di College Steet. Per poche rupie potrete mangiare e bere in questo antico luogo, centro intellettuale  della città durante un secolo ed ancora luogo di ritrovo di pensatori e viaggiatori di lungo corso.

Nell'insieme è una città di grande fascino, con un eccellente programma culturale, una fantastica tradizione culinaria e ottime occasioni di shopping, soprattutto nel campo tessile.

Darjeeling, West Bengala

Al centro della splendida valle, racchiusa entro la catena dell'Himalaya, si estendono magnifiche piantagioni di tè.

Nel 1828 il luogo fu scoperto da un capitano inglese, che subito ne intuì i potenziali vantaggi per i residenti anglosassoni come stazione di villeggiatura e di fuga da Kolkata, fino a divenire la residenza estiva ufficiale del Governo coloniale, ma anche e soprattutto come punto strategico di cruciale importanza sulla via del Tibet. Darjeeling, il cui nome proviene dal tibetano Dorjee-Ling, Luogo della folgore, apparteneva allora al Sikkim. La Gran Bretagna aiutò l'allora maharaja del Sikkim a recuperare parte dei suoi territori, che nel corso di sanguinose battaglie erano caduti sotto il dominio dei vicini Nepal e Bhutan. A cambio la Compagnia delle Indie ottenne l'affitto di Darjeeling a un costo annuo irrisorio. Successivamente la città venne inglobata nelle Indie inglesi: quando ci si accorse che il clima era particolarmente propizio alle piantagioni di tè, si procedette a dissodare centinaia di ettari di foreste per i primi esperimenti. La manodopera era costituita da migliaia di nepalesi che provvedevano alla coltivazione e alla raccolta sotto la supervisione di maestri cinesi, e ben presto sui mercati internazionali la fama del tè di Darjeeling divenne tale da valergli il soprannome di Champagne dell'Est.

Successivamente, dopo la scoperta della Chinchona o Quinquina, cioè il chinino e dei suoi benefici effetti anti-malarici, Darjeeling, sempre grazie al suo particolare clima, ne divenne un centro primario di produzione. Questo attirò numerosi missionari che oltre a curare e evangelizzare, si dedicarono all'istruzione. Col tempo la serietà dei loro istituti attrasse anche i figli dei colonizzatori inglesi, come per esempio lo scrittore Lawrence Durrel, nato in India e affermatosi con Il Quartetto di Alessandria, che qui si formò come poi fecero e fanno tuttora moltissimi professori indiani.

Si arriva a Darjeeling in autobus o in taxi, ma l'arrivo classico prevede l'ascesa col Toy train, il trenino diesel a scartamento ridotto che da Siliguri/NewJalpaiguri percorre gli 86 Km che separano la pianura da Darjeeling in 6 ore, arrampicandosi tra tornanti che rivelano, mano a mano che si sale, architetture e fisionomie sempre più orientali. Costruita a 2134 m. la cittadina è piuttosto scoscesa ed è circondata da alte collineterrazzate per la coltivazione del tè o coperte da una lussureggiante vegetazione, che comprende dalle conifere alle orchidee. Sullo sfondo i giganti dell'Himalaya tra i quali spicca offrendo  una straordinaria - rara e fugace a causa delle nebbie e i vapori - visione, il Kangchendzonga, o Kanchenjunga.

L'ambiente della città alta è tranquillissimo, al contrario della parte bassa, punto d'arrivo della ferrovia: l'aria rarefatta e forse la fede buddhista rendono la popolazione di Darjeeling particolarmente rilassata e gentile. Monasteri buddhisti, ponies da soma, librerie e negozi di antiquariato orientale - l'impressione è che l'intero patrimonio monastico tibetano  sia qui in vendita -  passanti che sgranano costantemente i loro rosari mormorando mantra, giardini botanici, antiche magioni e hotels coloniali, fecero e farebbero tuttora di Darjeeling un'oasi indimenticabile. Purtroppo la globalizzazione e il galoppare delle tecnologie stanno rapidamente rendendo anche questo luogo un po' indistinguibile dal resto del pianeta.

http://guide.dada.net

Bangladesh

Il Bangladesh, ufficialmente Repubblica Popolare del Bangladesh è un paese dell'Asia meridionale. Spartisce i suoi confini terrestri su tutti i lati con l'India ad eccezione di un piccolo tratto con la Birmania nell’estremo sud-est. A sud è bagnato dal Golfo del Bengala. Assieme con lo stato indiano del Bengala Occidentale costituisce la regione etnico-linguistica del Bengala. Il nome Bangladesh significa "Paese del Bengala" in lingua ufficiale bengalese. Il Paese si estende su 144.000 km², e possiede una popolazione di 153 milioni di abitanti.
I confini dell’odierno stato del Bangladesh sono stati stabiliti con la partizione tra Bengala e India nel 1947, quando la regione divenne la porzione orientale del neo-costituito Pakistan, sebbene separata dallo stato a occidente da ben 1.600 km attraverso l'India. Discriminazioni linguistiche, politiche ed economiche condussero ad agitazioni popolari contro Pakistan Occidentale, che portarono alla guerra per l'indipendenza nel 1971 e la costituzione dello Stato del Bangladesh. Tuttavia, il nuovo Stato ha dovuto sopportare carestie, catastrofi naturali e la povertà diffusa, così come sconvolgimenti politici e colpi di stato militari. Il ripristino della democrazia nel 1991 è stata seguita da una relativa stabilità e progresso economico.
Il Bangladesh è tra i paesi più densamente popolati del mondo ed ha un elevato tasso di povertà. Geograficamente il paese è localizzato sulla fertile pianura del delta di Gange e Brahmaputra, ed è soggetto alle annuali inondazioni dei monsoni e cicloni. Il Bangladesh è membro di Commonwealth. Come rilevato dalla Banca Mondiale nel luglio 2005, il paese ha compiuto progressi significativi nello sviluppo umano nei settori dell’alfabetizzazione, nella parità di scolarizzazione e nella riduzione della crescita della popolazione.

Nel 1950 venne attuata una riforma fondiaria con l'abolizione del sistema feudale (zamindari).Tuttavia, nonostante il peso economico e demografico della parte orientale, il governo politico e militare del Pakistan era in gran parte dominato dalle classi della parte occidentale. Il Movimento della lingua bengalese del 1952 fu il primo segno di attrito tra le due regioni del Pakistan.Insoddisfazioni contro il governo centrale, oltre a questioni economiche e culturali continuarono a crescere nel successivo decennio, durante il quale la Lega Awami emerse come voce politica della popolazione di lingua bengalese. Negli anni ’60 chiese fortemente l'autonomia e nel 1966, il suo presidente Sheikh Mujibur Rahman venne incarcerato, per essere poi rilasciato nel 1969 dopo una rivolta popolare senza precedenti.
Nel 1970 un potente ciclone devastò la costa del Pakistan orientale, e il governo centrale reagì in maniera insufficiente. La rabbia della popolazione crebbe quando a Sheikh Mujibur Rahman, il cui partito Lega Awami aveva vinto le elezioni nel 1970,venne impedito di prendere mandato.
Dopo un tentativo di compromesso il presidente Yahya Khan arrestato Majibur nelle prime ore del 26 marzo 1971, e lanciò l’Operazione Searchlight,un attacco militare al Pakistan Orientale. I metodi di Yahya furono estremamente sanguinosi, e la violenza della guerra causò molti morti fra i civili.Circa dieci milioni di rifugiati fuggirono nella vicina India.Le stime dei massacrati sono imprecise, ma sono comprese tra i 300.000 e i 3 milioni di morti.


L'abbraccio di madre Ganga
Reportage dal Gange, per comprendere il rapporto di ogni indù con il fiume sacro
Scritto
Cristiana Buzzelli 

India - 30.1.2006


“La prego, prenda una banana!”: Viknod si volta verso di me, sorride, afferra il frutto dalle mie mani e lo infila nella tasca della camicia, ormai resa trasparente dal sudore. Continua a pedalare. Forse pensa che la fatica non è ancora tanta da richiedere un’iniezione di sali minerali e zuccheri rapidamente assimilabili. Viknod è un risciò-wallah, uno che per mettere insieme un centinaio di rupie al dì pedala senza sosta schivando frenetici risciò a motore, placide mucche, qualche Ambassador tirato a lucido. Secondo la legge – non scritta ma tacitamente accettata nelle strade indiane – che il veicolo più piccolo deve sempre cedere il passo al più grande. D’altronde, le due corsie sono un optional e tutti i mezzi viaggiano al centro della strada, dove le condizioni del fondo sono vagamente praticabili. Il primo istinto di un passeggero al suo battesimo su un risciò a pedali è quello di dare il cambio al conducente. Già dopo i primi cinque minuti di tragitto capisci che forse a piedi facevi prima e, per uno strano meccanismo di transfert, ti accorgi che stai stringendo i denti nel vedere le sue gambe magre perennemente ritte sui pedali, se non a terra per trascinare te, il risciò e il tuo bagaglio. Così, appena salti giù, quasi non ti infastidisci se l’uomo-risciò chiede qualche rupia in più rispetto al prezzo pattuito a inizio corsa. Nel dargliele provi un raro sollievo, mentre ripeti a te stesso: “Dalla prossima, solo risciò a motore, please”.

Il senso del viaggio. Il Ganga Road Trip comincia qui, sotto la tettoia fatiscente dell’ufficio informazioni di Rishikesh, Uttaranchal. Quindici volontari da ogni angolo del mondo che hanno raccolto l’invito di una Ong locale per tentare di comprendere il viscerale rapporto esistente tra ogni indù e Lei, Ganga Mata, la Madre Gange. La divinità che per volontà di Brahma ha abbandonato i piacevoli sollazzi del mondo celeste, per calarsi qui, nella pancia dell’India, tra i mortali, a compiere la sua opera di purificazione. Capisci subito perché la mitologia induista vuole che il Dio Shiva abbia interposto i suoi riccioli alla discesa di Ganga sulla terra: se la sua chioma non avesse svolto un’azione frenante, la potenza divina del fiume avrebbe travolto ogni cosa. E oggi decine di migliaia di pellegrini induisti non intraprenderebbero – almeno una volta nella vita – il viaggio attraverso quei luoghi sacri, lungo il corso del fiume, la cui visita è necessaria per il raggiungimento della moksha, la liberazione spirituale.

Salvare il Gange. Il nostro compito di volontari è quello di condividere con loro luoghi, cerimonie, aspettative, per individuare un varco “spiritually correct” attraverso il quale far filtrare il messaggio ecologico: “Save Mother Ganga”. Infatti… sarà pure il fango, saranno le piogge frequenti, ma guardi l’acqua e hai subito la sensazione che difficilmente qualcosa di “puro” potrà uscirne. Eppure è sufficiente svegliarsi all’alba per capire che hai appesantito inutilmente il tuo zaino con guanti di plastica, stivali di gomma…Non troverai mai il coraggio di utilizzarli. Alle prime luci, ogni ghat, la scalinata che gradatamente si immerge nel fiume, è una macchia di arancio. Il colore della pace, dell’amore, dei pellegrini, che si ritrovano per le abluzioni mattutine: uomini, donne, bambini. Complessi rituali che terminano nell’abbraccio di Madre Ganga: chi si immerge, chi lascia scorrere l’acqua sul capo, chi porge offerte di latte e riso. Mentre i sadhu recitano i loro mantra, immobili in meditazione per minuti interminabili. Sono gli asceti, gli uomini saggi, coloro che hanno abbandonato ogni legame con la materialità dell’esistenza per ricercare una superiore dimensione spirituale. Viaggiano armati di un fagotto di abiti, un tappeto, un contenitore metallico per l’acqua sacra e il cibo, generalmente offerto loro dai fedeli. Il ritmo della loro esistenza è scandito dal fiume, che li chiama a sé all’alba e al tramonto, per preghiere e abluzioni.

Pulizia e purezza. La spiritualità di oltre ottocentomila induisti gioca un ruolo critico nel quadro ambientale ed ecologico dell’India moderna. Quell’India entrata a pieno titolo tra i Paesi emergenti dell’economia mondiale, il cui PIL a fine anno sarà cresciuto quasi del 7%, è la stessa India convinta che le acque di Madre Ganga siano in grado di “autopurificarsi”, senza risentire dell’impatto di rifiuti organici ed industriali che quotidianamente confluiscono nel fiume nel corso dei suoi 2500 Km fino al Golfo di Bengala. Il primo ministro Rajiv Gandhi aveva ben chiara la delicatezza della questione quando introdusse il Ganga Action Plan nel 1986, giocando sulla sottile differenza esistente tra “purezza” e “pulizia” del fiume. “La purezza del Gange non è in discussione”, questo l’incipit del suo discorso pubblico di allora, la chiave per aprire un dialogo costruttivo con il suo popolo, senza urtarne la sensibilità religiosa.

La testimonianza. E’ facile toccare con mano la verità di quelle parole. Madre Ganga è un’entità spirituale, non in grado di essere scalfita dai processi biologici: un uomo scende lento i gradini del Triveni Ghat, si spoglia dei suoi indumenti, si libera di un sacchetto di plastica e del suo contenuto, lasciandolo andare con noncuranza sul letto del fiume. Compie con osservanza le sue abluzioni e beve a piene mani l’acqua divina, la stessa che solo pochi istanti prima aveva accolto i rifiuti, per sua stessa mano. Non è che un esempio, purtroppo frequente. “Ogni domenica realizziamo un cleaning program nel tratto di fiume di nostra competenza – spiega Narendera Singh, giovane impiegato del Parmarth Niketan Ashram di Rishikesh, tra i più noti centri di yoga e meditazione del mondo induista -. Gli allievi della scuola sono consapevoli del problema. Ripuliamo gli argini, coinvolgiamo pellegrini e turisti a fare altrettanto. Preservare le acque della madre Ganga non è che un ulteriore atto di rispetto verso la dea purificatrice. Il Governo ha giustamente destinato fondi ingenti allo scopo. Ma parallelamente alla realizzazione delle infrastrutture, è necessario svolgere il lavoro sul campo, parlare con le persone, cambiarne la mentalità. Che senso ha installare raccoglitori di immondizia, se nessuno li utilizza?”. 

Ad Haridwar, il fiume cambia volto. E’ qui che il Gange abbandona le montagne e si immerge lento nell’immensa pianura, ragion per cui la città è considerata luogo estremamente sacro. Tanto che ogni giorno, al tramonto, migliaia di fedeli partecipano alla Ganga Aarti, cerimonia guidata dai bramini - l’antica casta sacerdotale che ancora oggi detiene il compito di condurre la puja, la preghiera del tramonto. All’occhio esterno, più che una preghiera sembra una festa: già con un’ora di anticipo ci si accontenta di posti in piedi, mentre ciascuna famiglia stende gli stuoini sulle sponde pavimentate del fiume. Gli uomini si applicano il tilak – segno induista - sulla fronte, i giovani più baldanzosi cercano gloria tuffandosi dal ponte che attraversa il fiume, le donne riempiono le taniche di plastica con l’acqua sacra, che sarà donata ai parenti anziani impossibilitati a far visita personalmente alla Madre Ganga.

L'orma di Vishnu. Cinque rupie per un desiderio, tanto costano i fragili cestelli di foglie riempiti di una manciata di petali, con una candelina al centro. Al termine della cerimonia, ci si avvicina all’acqua, si accende lo stoppino e ognuno affida silenziosamente i propri sogni alla corrente. Centinaia di sogni si incontrano al centro del fiume, tante fiammelle accese che viaggiano a pelo d’acqua finchè l’occhio riesce a seguirle. Il “rompete le righe” dei bramini arriva dall’Har-ki-pairi, in Haridwar luogo sacro per eccellenza: “Su quella scala Vishnu ha poggiato il suo piede, se ne conserva ancora l’orma”, racconta Mohan, giunto qui per incontrarci da Narora, villaggio dell’Uttar Pradesh a 200 km (e 8 ore di strade indiane!). Il popolo indiano non avrà moneta sonante, ma può spendere qualcosa che per noi occidentali è ormai un bene più prezioso, il tempo. Sono pronti a lasciare qualsiasi impegno abbiano nell’immediato per farti da guida, spiegarti, offrirti un masala chai, il tè speziato che accompagna ogni occasione di incontro. Mohan, con venti volontari come lui, si occupa di proteggere una trentina di delfini che nuotano nel tratto di fiume in prossimità di Narora, “villaggio” di sessantamila anime fuori dagli itinerari dei pellegrinaggi. “Sono delfini ciechi, frutto di un’opera di ripopolamento della fauna fluviale avviata dallo Stato. Li contiamo giornalmente e ci preoccupiamo che non incappino nelle buste di plastica, il loro peggior nemico. La nostra associazione non è riconosciuta come Ong, per cui non percepiamo fondi statali. Il WWF ci dà una mano, ma è facile perdersi nei meandri della burocrazia governativa”. Delfini che sopravvivono nel Gange… forse Madre Ganga ha davvero uno straordinario potere!

Kanpur. Sfido però ogni indù che si rispetti a immergersi a Kanpur, tappa successiva. Oltre tre milioni di abitanti, Kanpur è tra i principali poli industriali dell’India settentrionale. La città ha conosciuto una crescita smisurata in seguito all’installazione – proprio sulle rive del fiume – di oltre 350 concerie, oltre a industrie di fertilizzanti, detergenti, vernici: attività ad alto tasso inquinante, specialmente se svolte senza alcun vincolo di legislazione ambientale da rispettare. Nemmeno il sole ha il coraggio di fare capolino: nonostante la temperatura e l’umidità insostenibili, il cielo è grigio sopra di noi. Dopo un’intera notte di viaggio in autobus, ci accoglie Rakesh K. Jaiswal, fondatore della Ong “Ecofriends”, che da anni ingaggia a Kanpur lotte per sensibilizzare cittadini ed imprenditori al rispetto delle acque: “Troppo spesso le logiche del profitto sono più sacre di quelle ambientali, soprattutto se è possibile intascare i fondi per realizzare impianti a norma senza la necessità di metterli in funzione”.

Lo spettacolo. Rakesh è un osso duro, nel suo studio campeggia l’onorificenza conferitagli nel 2001 da sua Santità il Dalai Lama, quale “Eroe silenzioso della compassione”. Grazie alla sua disponibilità, è possibile rappresentare il nostro streetplay presso l’istituto scolastico più popolato della città: novelli artisti di strada, siamo emozionati tanto quanto gli oltre cinquecento studenti che ci osservano affacciati alle balconate del cortile interno alla scuola, dove è stato allestito un rudimentale palcoscenico. Dal chiacchiericcio di sottofondo posso immaginare la curiosità destata da noi ragazzi occidentali con costumi indiani: molti degli spettatori non hanno mai assistito ad una rappresentazione teatrale. La musica cresce, teli azzurri ondeggiano sull’improvvisato palcoscenico, una bionda Madre Ganga balla avvolta dalla tersa acqua di stoffa. Lo spettacolo prende forma, si alternano sulla scena pellegrini e industrie; in una rudimentale forma di meta-teatro riusciamo a coinvolgere anche qualche studente, che titubante sale sul palco per porgere impreviste offerte alla dea Ganga. Nessun applauso dopo l’inchino, non rientra nelle consuetudini indiane. Si fa avanti la Direttrice dell’Istituto, cala un rispettoso silenzio. In hindi sottolinea i concetti da noi espressi con semplici gestualità. Parla di passione e consapevolezza, le sue parole trasmettono energia, come l’abito giallo che indossa: “Un miliardo di persone in India, che fanno due miliardi di working hands, mani operose. Ma bisognose di leader in grado di guidarle ad essere realmente produttive per il proprio Paese. L’interesse che le condizioni del grande fiume destano nel mondo esterno deve fungere da sprone per azioni concrete e responsabili, che devono partire dall’interno, dalle nostre nuove generazioni”. Si dice onorata della nostra presenza. In realtà, onorati lo siamo noi, di aver contribuito anche solo con una goccia all’oceano di lavoro da fare per salvare la grande Madre. 

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